Sin troppo spesso negli ultimi anni si è assistito ad un’interpretazione delle norme in materia di sicurezza del lavoro improntata ad un ingiustificato sfavore nei confronti del datore di lavoro, tanto da arrivare a riconoscerne la responsabilità penale anche in presenza di comportamenti del lavoratore palesemente contrari alle direttive aziendali.
Con una recente pronuncia, tuttavia, la Suprema Corte ha ribadito i limiti della responsabilità del datore di lavoro, precisando che: “in caso di infortunio sul lavoro riconducibile a prassi comportamentali elusive delle disposizioni antinfortunistiche, non è ascrivibile alcun rimprovero colposo al datore di lavoro -o a colui eventualmente preposto- sotto il profilo dell’esigibilità del comportamento dovuto, laddove non si abbia la certezza che egli fosse a conoscenza di tali prassi o che le avesse colposamente ignorate, sconfinandosi altrimenti in una inammissibile ipotesi di responsabilità oggettiva” (v. Cassazione Penale, Sez. 4, 12 marzo 2021, n. 9824).
L’evento accertato nel corso del processo riguardava il decesso di un operaio edile avvenuto nel corso di lavori di ristrutturazione di un edificio, in conseguenza di un colpo di calore che aveva provocato un’insufficienza cardiorespiratoria. Veniva accertato nel corso dell’istruttoria che il lavoratore aveva ingerito sostanze alcoliche (che avevano acuito gli effetti della temperatura esterna) e non indossava un copricapo.
La tesi della Pubblica Accusa si fondava sostanzialmente su tre ipotetiche omissioni del datore di lavoro: 1) avere consentito alla prosecuzione dei lavori, malgrado la temperatura elevata (circa 34 gradi); 2) non avere vigilato affinchè il lavoratore indossasse un copricapo idoneo; 3) non avere vigilato affinchè il lavoratore non assumesse alcolici.
In primo ed in secondo grado veniva dichiarata la penale responsabilità del datore di lavoro, in base alle prime due tesi dell’accusa, avendo scartato solamente la tesi della mancata vigilanza sulla condizione di etilismo del lavoratore, dal momento che la stessa non era emersa in occasione delle visite mediche e che era credibile che questi l’avesse tenuta nascosta per evitare il licenziamento.
La Suprema Corte, tuttavia, ribaltando le sentenze di merito, esclude in radice la colpa del datore di lavoro evidenziando, in primo luogo, come non esista alcuna norma o regola di esperienza che vieti la prosecuzione dei lavori ad una temperatura di 34 gradi (non senza una certa ironia, la Corte rileva come, se così non fosse, sarebbe sostanzialmente impossibile lavorare in estate nella parte meridionale del nostro Paese).
Quanto alla mancata vigilanza sull’uso del copricapo, la Corte evidenzia che risultava provato come il lavoratore avesse in dotazione un regolare elmetto protettivo, ma avesse scelto spontaneamente di non indossarlo, eludendo così le disposizioni che pure gli erano state impartite. In merito la Corte evidenzia che, a fronte di prassi elusive delle normative infortunistiche da parte dei lavoratori, il datore di lavoro può essere chiamato a rispondere solo ove si provi, con certezza, che egli fosse a conoscenza di tali prassi, o le avesse colposamente ignorate.