La responsabilità penale del “prestanome”

Una prassi, sicuramente illecita, ancora molto in voga nell’ambito della gestione delle imprese, specie se connesse all’esercizio di attività ad alto rischio di infortunio, è la nomina di un “prestanome” o “uomo di legno”, ai vertici della società. Questo soggetto, solo formalmente rivestito della qualifica di legale rappresentante, amministratore unico o comunque di “datore di lavoro”, in realtà è sprovvisto di qualsiasi potere nella gestione della società, dal momento che tutte le direttive vengono impartite dal c.d. “imprenditore occulto”.

La scelta della nomina di un “prestanome”, chiaramente, è volta ad evitare all’imprenditore occulto ogni tipo di responsabilità derivante dagli illeciti connessi all’esercizio dell’attività di impresa, tuttavia questa prassi illecita nella maggior parte dei casi non salva nè il prestanome nè l’imprenditore occulto.

Non è certo sufficiente, infatti, affermare che ogni decisione viene presa da un altro soggetto, per essere scagionato da ogni responsabilità, infatti anche il rifiuto consapevole di esercitare i poteri connessi alla propria carica è sicuramente fonte di responsabilità (omissiva), per non avere impedito il reato.

Nell’ambito dei reati tributari (fattispecie in cui la nomina di prestanome è diffusissima), la Cassazione ha già più volte ribadito che “è sufficiente, dunque, che il prestanome sia consapevole di accedere all’altrui proposito illecito che la propria condotta omissiva rende attuabile o comunque agevola, qualunque sia il motivo della sua decisione” (v. Cassazione Penale Sent. n. 42892 del 20 settembre 2017).

Nell’ambito dei reati tributari, dunque, il prestanome risponde penalmente assieme all’imprenditore occulto, purchè sia consapevole che la sua condotta (anche solo omissiva) sta agevolando l’operato delittuoso dell’imprenditore occulto, a meno che non dimostri di essere effettivamente privo di qualunque potere o possibilità di ingerenza nella gestione della società.

Nell’ambito dei sinistri sul lavoro, la giurisprudenza della Suprema Corte è ancor più severa, ritenendo che alla qualifica formale di “datore di lavoro” del prestanome siano sempre associati gli obblighi di prevenzione dei sinistri previsti dalla Legge, come ribadito anche nella recente Sentenza n. 11686 del 29/03/2021 dalla Corte di Cassazione (che allego): “In diritto, quanto alla asserita veste di mero “prestanome” di C., lo stesso – siccome legale rappresentante-è, comunque, destinatario degli obblighi di protezione antinfortunistica, come ritenuto correttamente dalla Corte di merito, conformemente al costante all’insegnamento di legittimità (Sez. 3, n. 2580 del21/11/2018, Slabu, Rv. 274748-01; Sez. 3, n. 17426 del 10/03/2016, Tornassi, Rv. 267026-01; Sez. 4, n.39266 del 04/10/2011, Fornoni, Rv. 251440-01; Sez. 3, n. 24478 del 23/05/2007, Lalia, Rv. 236955-01;Sez. 3, n. 28358 del 04/07/2006, Bonora e altri, Rv. 234949-01). Principio che vale anche ove il legale rappresentante sia un mero prestanome (Sez. F, n. 42897 del09/08/2018, C., Rv. 273939-01; Sez. 3, n. 7770 del 05/12/2013, Todesco, Rv. 258850-01; Sez. 3, n.14432 del 19/09/2013, Carminati, Rv. 258689-01; Sez. 3, n. 25047 del 25/05/2011, Piga, Rv. 250677-01;Sez. 3, n. 22919 del 06/04/2006, Furini, Rv. 234474-01)“.

Il caso concreto sottoposto all’esame della Suprema Corte era, di per sè, molto semplice: un operaio stava predisponendo dei teli di plastica su una terrazza al secondo piano di un immobile, per preparare l’ambiente alla successiva verniciatura del tetto. A ridosso del balcone, perdeva l’equilibrio e cadeva al piano sottostante, cagionandosi lesioni gravi. La responsabilità dell’impresa veniva individuata nel non avere predisposto alcun tipo di parapetto o protezione per prevenire la caduta.

Il legale rappresentante dell’impresa responsabile dei lavori, tuttavia, deduceva e dimostrava in giudizio di non avere mai rivestito alcun ruolo effettivo nella direzione della società, in quanto (come confermato da tutti i testimoni esaminati) tutte le decisioni venivano adottate da suo padre, di cui lo stesso era un mero prestanome.

La Suprema Corte, tuttavia, riteneva che tale circostanza potesse rilevare unicamente per estendere la responsabilità penale anche al padre dell’imputato, ma non per esimere questi dalla responsabilità per le lesioni colpose causate anche dal suo omesso intervento. Allo stesso modo non veniva ritenuto rilevante che l’imputato non fosse mai stato presente sul luogo del sinistro.

Pur dovendo necessariamente tenere conto della posizione della Suprema Corte, in questo caso (come in molti altri simili), pare che la stessa non abbia affrontato la questione sottoposta al suo giudizio con la necessaria attenzione.

A parere dello scrivente, infatti, il principio di “effettività” imporrebbe una verifica concreta dei poteri che un soggetto può concretamente esercitare nell’impresa, al di là dell’investitura formale, in caso contrario anche un individuo che si è limitato, seppure incautamente, a “prestare il proprio nome” finisce per rispondere di tutti i delitti commessi dall’imprenditore occulto, pur senza potere in alcun modo intervenire per prevenire i sinistri.

E’ palese come, nel campo dei sinistri sul lavoro, forse proprio a causa dell’elevato allarme sociale generato dalle gravi conseguenze che ne derivano, la Cassazione non abbia ancora saputo trovare la necessaria equanimità per applicare i principi che, nell’ambito dei reati tributari, sono già assodati.

Avv. Matteo Sacchi

Avvocato esperto in diritto penale d’impresa, in particolare sugli infortuni e sulla tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro.
Sono un Avvocato del foro di Milano e mi occupo principalmente di sicurezza sui luoghi di lavoro. Aiuto gli imprenditori a risolvere i loro problemi penali riguardanti l’infortunio di un loro dipendente.